Sono cresciuta sotto ad un campanile, anzi, sono nata con i rintocchi delle ore che mia mamma, sfinita, contava con impazienza.
Ancora oggi il suono di quelle campane che suonano e risuonano a festa, a morte, o solo le ore, mi emoziona e fa riaffiorare i ricordi.
Se chiudo gli occhi magicamente rivedo la mia casa.
Come in un film vedo scorrere immagini di particolari a cui non avevo mai dato importanza ma che ora suscitano in me una profonda commozione.
Rivedo il corridoio illuminato da una fioca lampadina, le piastrelle grigie e rosse del pavimento un pochino usurate e smosse, tanto che lo zio con ironia aveva battezzato la casa “L’albergo della pianella mossa”.
Rivedo la “stüa”, la grande sala, e risento il profumo del legno, delle bucce d’arancia messe sulla stufa, della pelle della grande poltrona e dell’acqua di colonia della nonna.
Risento la sua voce che canta nenie antiche mentre mi culla tra le sue braccia ed io, lasciando vagare lo sguardo assonnato attraverso i vetri della “lòbia”, vedo il campanile maestoso che sembra far da ponte tra terra e cielo, come una passerella per andare a sbirciare lassù tra le stelle.
Rivedo la grande cucina, dalla finestra entra lo scampanio allegro della domenica per la “Messa granda”, la Messa cantata delle 11.
Rivedo il nonno tra vapori e profumi di bollito che, con il suo grembiulone bianco legato in vita ed il ciuffetto ribelle, rimesta, scoperchia, schiuma, aggiunge brodo. Ha il suo bicchiere di vino appoggiato sulla mensola del camino e, sorseggiando e canticchiando, gira pazientemente il risotto col cucchiaio di legno, sembra che stia celebrando un rito, il rito del risotto giallo della domenica.
Chissà in quante altre case si celebra lo stesso rito, il risotto è uno dei piatti più diffusi della tradizione lombarda la cui origine più che storia pare leggenda.
Correva l'anno 1474 a Milano.
Valerio di Fiandra, artista fiammingo intento al restauro della vetrata di sant'Elena in Duomo, rimprovera un giovane allievo lombardo colpevole d’impiegare troppo prezioso zafferano per
colorare gli sfondi delle vetrate:
- "Tu lo metteresti anche nella minestra quel giallo!"
Il ragazzo china il capo ma quella frase resta impressa nella sua mente, ci ripensa e decide di giocare un tiro mancino al maestro. Il giorno della Madonna si sposa la figlia di Valerio di Fiandra e quale migliore occasione per spruzzare davvero un po’ di polverina gialla nel riso per il pranzo di nozze? Non ci vuole molto a corrompere il cuoco … Ed immaginate lo stupore di tutti i commensali quando in tavola compare quella minestra di riso dal colore d’oro! Qualcuno si fa coraggio ed assaggia, poi un altro ed un altro ancora e in un battibaleno non rimane nemmeno un granello di riso. Il tiro mancino del giovane allievo è decisamente andato male, ma ha consegnato alla leggenda il primo risotto alla milanese.
Da questa leggenda ne scaturisce anche un’altra sul nome “risotto”: un umanista, assaggiando questo singolare riso giallo, pare abbia esclamato: “Risus optimus!”
Leggende ed amenità a parte, è documentato che la “cottura a risotto” è una tecnica tutta italiana, unica in un mondo in cui il riso è universalmente bollito ed eventualmente solo in seguito saltato o messo in forno, che ha costretto anche la grande cucina internazionale ad indicare genericamente il risotto come "riso all'italiana".
Siamo stati proprio noi, con la creatività che il mondo ci riconosce, ad inventare e a rendere famoso il risotto.
Certo è che nel 1791 il risotto in Piemonte era già un piatto tradizionale, anche se soltanto tra le classi abbienti, i Savoia erano soliti farlo servire a mezzanotte, durante i ricevimenti che davano nei loro bei palazzi torinesi.
La ricetta definitiva del risotto, completa nella sua formulazione finale, nasce all'inizio dell'800 nel libro "Cuoco moderno”, uscito a Milano nel 1809 per opera di un non meglio identificato L.O.G., testo di estremo interesse per la storia della gastronomia milanese ma dai più ingiustamente ignorato.
La sua ricetta:
Riso Giallo in padella
Cuocere il riso, saltato precedentemente in un soffritto di burro, cervellato, midolla, cipolla, aggiungendo progressivamente brodo caldo nel quale sia stato stemperato dello zafferano.
Nel 1826 Antonio Odescalchi, di Como, ne “Il cuoco senza pretese, ossia la cucina facile ed economica” scrive
Risotto da par vostro
“Palpata una cipolletta ben trita nel butiro vi aggiungerete midolla e grassa nella proporzione per esempio per 6, un’oncia per sorte, e quando la cipolla avrà preso un bel colore d’oro senza abbruciare vi metterete il riso nella dose di una quartina volgendolo col cazzuletto fino a che avrà assorbito l’unto. Allora vi verserete nella cazzeruola quella quantità di brodo, che potrà bastare ad occhio unendovi il cervellato.
Cotto poi che sarà per i due terzi lo tingerete col zaffrano sciolto nel brodo; e se aveste un po’ di polvere di funghi, o triffolo tagliato a fette mescolato assieme a buon formaggio, e terminata la cottura”
Che il risotto con lo zafferano non sia un piatto solo milanese (nonostante il nome che gli viene attribuito comunemente) è cosa nota. È probabile che il nome che ha reso celebre la pietanza sia una forzatura campanilistica di Giovan Felice Luraschi che, nel suo “Nuovo cuoco milanese economico” del 1829, posteriore di tre anni rispetto al “Cuoco senza pretese”, indica il risotto con lo zafferano con il nome di “Risotto alla milanese giallo”.
Le codificazioni successive hanno portato all'eliminazione tanto del “cervellato”, la salsiccia tradizionale del Milanese, quanto dei funghi e dei tartufi. La tradizione milanese consolidata prescrive inoltre la frequente rimescolatura del risotto e la sua mantecatura finale, mentre le ricette della prima metà dell’Ottocento, tanto questa dell’Odescalchi quanto quella del Luraschi, non accennano a questa pratica. “Lasciatelo cuocere” afferma il Luraschi; “…e terminate la cottura” l’Odescalchi: con ogni evidenza la preparazione “all’onda” si afferma nei decenni successivi.
Ai primi del '900, Pellegrino Artusi fornisce due ricette del Risotto alla Milanese, la prima senza vino, la seconda con vino bianco. Ecco il motivo: nella prima ricetta non menziona né il midollo di bue né altri grassi; nella seconda, che lui definisce “più greve allo stomaco ma più saporita", ecco comparire il midollo e vino bianco. Aveva infatti compreso che questo grasso rendeva il piatto appiccicoso al palato, quindi occorreva un tocco di acidità per sgrassare la bocca e dare nerbo al risotto.
Nell'Italia autarchica del regime fascista il riso è in grande considerazione, perché prodotto nostrano e, soprattutto, molto a buon mercato. Un “risotto giallo” finisce nel ricettario di “Petronilla”, al secolo la dottoressa Amalia Moretti Foggia della Rovere, faro della gastronomia economica dei tempi; la ricetta cita alcuni passaggi non convenzionali, come quello di soffriggere la cipolla fin quasi all'annerimento, dimostrando, allo stesso tempo, quanto il piatto fosse ormai incancellabile dalla letteratura culinaria italiana.
Anche il famoso scrittore milanese Carlo Emilio Gadda, sicuramente un cultore della buona cucina, nel racconto breve “Risotto patrio” pubblicato nell’ottobre 1959 sulla rivista “Il Gatto Selvatico” n.10 (rivista aziendale dell’ENI, allora diretta da Bertolucci) si abbandona ad una descrizione gastronomica precisa e puntuale.
Inizia con l’indicare il tipo di riso da usare, il “Vialone nano” “… non interamente “sbramato”, cioè non interamente spogliato del pericarpo... Il chicco, a guardarlo bene, si palesa qua e là coperto dai residui sbrani d’una pellicola, il pericarpo, come da una lacera veste color noce o color cuoio, ma esilissima …”
Passa poi alla scelta del recipiente entro cui dovrà aver luogo la cottura del risotto: la casseruola di rame stagnato con manico di ferro, è consigliata perfino la mano, quella sinistra, con cui afferrare la pentola:
“La casseruola, tenuta al fuoco pel manico e per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo, preferibilmente brodo al foco, e di manzo: e burro lodigiano di classe.”
Prosegue con raccomandazioni precise:
“Quel che più importa è adibire al rito un animo timorato degli dèi e reverente del reverendo Esculapio o per dir meglio Asclepio, e immettere nel sacro “risotto alla milanese” ingredienti di prima qualità: il suddetto Vialone con la suddetta veste lacera, il suddetto Lodi (Laus Pompeia), e i suddetti spicchi di cipolle tenere; per il brodo, un lesso di manzo con carote e sedani, venuti tutti e tre dalla pianura padana, non un toro pensionato, di animo e di corna balcaniche: per lo zafferano consiglio Carlo Erba Milano in boccette sigillate: si tratterà di dieci dodici, al massimo quindici, lire a persona: mezza sigaretta!”
Ai giorni nostri Gualtiero Marchesi, Maestro della cucina creativa, perfeziona la ricetta e dà la sua moderna interpretazione del risotto “Oro e zafferano” in cui aggiunge, all'ultimo momento, quattro lamine finissime d'oro per alimenti consigliando di procedere così:
“Tostare il riso in poco burro, iniziare la cottura col brodo, poi aggiungere lo zafferano; frattanto fare sudare a parte la cipolla in pochissimo burro e vino bianco, aggiungere burro fresco ben freddo per ottenere una crema omogenea. Mantecare il Risotto, con questo burro, a fine cottura, assicurerà al piatto un supporto di acidità e aroma che esalterà i sapori ed il profumo!”
Ora mi sento un po’ intimidita dal Maestro raffigurato qui sopra, però vi voglio raccontare il
Risotto alla Milanese del nonno Guelmìn.
Ingredienti per due persone:
200 gr di riso (lui usava il Maratelli, io preferisco il Carnaroli)
20 gr di cipolla
50 gr di burro
20 gr di midollo di bue
750 cl. di brodo di carne
vino rosso
una bustina di zafferano
parmigiano grattugiato
una ventina di pistilli di zafferano
Preparazione:
In una tazza mettere una ventina di pistilli di zafferano e coprirli con un mestolo di brodo bollente.
In una casseruola di rame stagnato sciogliere la metà del burro quindi unirvi il midollo di bue e la cipolla affettata finemente, lasciarla stufare a fuoco bassissimo per circa 15 minuti, stando attenti che non colorisca. Aggiungere il riso e farlo tostare girando delicatamente con un cucchiaio di legno affinché i chicchi si impregnino bene del grasso di cottura diventando translucidi. Rigirando devono emettere un suono particolare, un ” cric cric...” di chicchi che sfregano uno contro l'altro.
Ecco, questo è il momento di versare un dito di vino rosso riscaldato per evitare uno shock termico al riso e perdere un po' di alcool. Lasciar sfumare e quando il vino è ben assorbito ed i chicchi si separano uno dall'altro abbastanza asciutti è ora di aggiungere il brodo bollente poco per volta, unendone man mano che il riso si asciuga.
Cuocere a fuoco vivace rimestando ogni tanto
Se si mescola continuamente dall'inizio cottura alla fine, il risotto non resterà al dente ma assomiglierà di più ad una polentina perché più si rigira e più i chicchi rilasciano amido, più amido rilasciano e più attaccherà e più si dovrà mescolare.
A metà cottura aggiungere la bustina di zafferano sciolta in un mestolo di brodo più la metà dei pistilli ammollati nel brodo bollente.
Spegnere la fiamma quando il riso è ancora al dente e la consistenza ancora piuttosto liquida, "all'onda", aggiungere il restante burro ed il parmigiano, mantecare e servire decorando con i pistilli rimasti.
Spero di non avervi annoiati!
Vi devo confessare che alla lunga io mi ero annoiata dell’eterno risotto della domenica del nonno ed una volta ho messo un scena un capriccio clamoroso:
Mi rivedo accanto alla cucina economica che contrariata grido:
“Non voglio mangiare il risotto! Voglio la polenta!! Perché non mi hai preparato la polenta?”
Il nonno alle mie urla rimane con il cucchiaio di legno per aria, pensando che me lo volesse pestare sulla testa mi allontano sempre urlando:
“Io volevo la polenta!!”
Per rendere meglio la scena strizzo gli occhi, copiose lacrime mi inondano le guance, e singhiozzo.
“ Vo-o-levo la po-o-lenta-aa-aa”
Tutti mi guardano meravigliati, non è da me fare così, solitamente sono una bambina allegra e ubbidiente.
Risento il nonno che, venendomi vicino, con la sua voce paziente dice:
“ Te la fò subìt la polenta, piancc pü pinina… varda!”
Riempie velocemente una tazza con un paio di mestoli di risotto giallo e velocemente sforma sul mio piatto una cupoletta gialla.
“Tela chì la polenta!!”
Nel frattempo lo zio Oscar, divertito dalla scena, prende la macchina fotografica e mi immortala mentre mangio la mia “polenta di risotto” asciugandomi le ultime lacrime e facendo la linguaccia al fotografo.
Articolo tratto da " Lunario di Valchiavenna 2014"